AQ: paga il mittente

AQ: paga il mittente

Due secoli prima della riforma postale di Rowland Hill la Repubblica di Venezia tassava già la corrispondenza in partenza, quella dei suoi uffici pubblici

Il leone alato di san Marco campeggia sul foglio in alto, al centro, affiancato da una A e da una Qe di grandi dimensioni; sotto, un testo prestampato, in inchiostro nero o rosso (utilizzato solo nel triennio 1617-1619); più in basso un messaggio manoscritto; all’angolo superiore sinistro una cifra, chiaramente una numerazione progressiva.

Il documento, su carta leggera, filigranata, è un AQ, concettualmente il progenitore del francobollo, e certamente dell’intero postale, 230 anni prima del Penny Black e della Mulready. Dei quali, pur senza avere la medesima notorietà, anticipava un’idea rivoluzionaria, il pagamento dell’importo dovuto a carico del mittente. L’utenza, in questo caso, non era rappresentata da cittadini privati ma da uffici pubblici: come dire, lo stato tassava se stesso. Un’idea due volte innovativa quella degli AQ.

Correva l’anno 1608 e tutto ciò non capitava in Gran Bretagna, sempre all’avanguardia nelle riforme postali – di lì a poco il direttore generale Henri Bishop avrebbe introdotto il primo annullo del mondo – ma nella serenissima repubblica di Venezia.

Cosa fossero e come funzionassero gli AQ lo spiega il testo prestampato sul «mezzo foglio» alto 21 centimetri e largo 30.

Il nome deriva dall’indicazione AQe, troncatura della parola latina aquae; il documento era infatti emesso su istanza dei Savi Esecutori alle Acque (cf. box di approfondimento I savi esecutori e l’amministratore delle acque lagunari).

Si trattava di una «lettera» – così viene definita nel decreto –  tassata, anzi pretassata: «dacio delli soldi 4 per lettera», sulla quale o all’interno della quale andava inserito il messaggio che si voleva comunicare. Era in dotazione di tutte le cancellerie delle magistrature dello Stato (ossia nelle segreterie degli uffici pubblici), le quali, salvo alcune eccezioni, erano obbligate a fruirne per la propria corrispondenza postale, previo il pagamento di quattro soldi, oltre al porto e al dazio. Precursore del Victoria regina, allora, il non emesso che nella volontà di Rowland Hill avrebbe dovuto servire agli uffici pubblici? Non proprio. Quella che può sembrare un’anomalia – lo Stato che tassa se stesso – avveniva in realtà perché l’amministrazione pubblica a Venezia era gestita da privati che ricevevano la carica – quasi sempre esazioni di tributi – dopo una gara d’appalto alla quale partecipavano pagando di tasca propria. Potevano poi rientrare delle spese riscuotendo a loro volta i dazi vinti in appalto. Accadeva così anche per gli AQ: che erano una sovrattassa integrativa rispetto al porto e al dazio, alla cui riscossione era preposto un dacier, un daziario, cioè il concessionario che faceva valere l’imposta (il cui nome si legge spesso al piede). Al termine di questi giri di denaro risulta quindi che lo Stato tassava se stesso solo apparentemente; nella realtà dei fatti tassava i privati che, nell’ottemperare alle cariche pubbliche che avevano ottenuto in appalto, spedivano lettere remissoriali, cioè risposte a cause, istanze, ecc. Tutto ciò rientrava nei giochi di una repubblica come quella di Venezia dalla connotazione fortemente oligarchica e plutocratica.

È inoltre appurato che l’importo di quattro soldi per ogni lettera rappresentasse un onere fiscale più che un vero e proprio contributo per il servizio postale; infatti quei versamenti servivano a finanziare i lavori di bonifica e pulitura degli alvei dei fiumi Brenta, Muson e Bottenigo che, diversamente, avrebbero provocato insidiosi insabbiamenti oltre a intorbidire le acque lagunari. E ciò stava molto a cuore alla magistratura alle acque.

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