Non è l'America

Non è l’America

L’esempio virtuoso del National Postal Museum di Washington impone una riflessione sullo stato dei “nostri” musei della comunicazione.

Di Giulio Filippo Bolaffi

Un recente viaggio negli Stati Uniti mi ha portato a riscoprire un museo che dovrebbe essere in cima alla lista di tutti i filatelisti: il National Postal Museum di Washington, parte del celeberrimo polo museale dello Smithsonian. La visita approfondita mi ha entusiasmato. Gli americani sono famosi per fare le cose in grande e soprattutto per saper valorizzare la loro – esigua – storia.

Ma dal momento che la storia filatelica è relativamente recente, americani e non se la giocano ad armi pari. Il termine “National” nel nome fa supporre che si tratti di un museo “americanocentrico”, ma così non è. Sicuramente molte gemme americane sono in bella vista, ma poi c’è tutta una parte internazionale, che offre al visitatore una visione globale di cosa è stato il francobollo nel mondo, fin dalle sue prime espressioni.

Il tutto all’interno di uno storico edificio, all’apparenza mastodontico, del quale il museo occupa meno del 5 per cento (il resto ospita uffici dell’Istat locale). Completamente rinnovato nel 2013, grazie a una serie di importanti donazioni filantropiche, il museo racconta la storia del francobollo in modo moderno e accattivante, presenta gemme e curiosità filateliche, propone da un lato uno spazio “ludico” per avvicinare i neofiti alla filatelia, e dall’altro una selezione di pezzi solo per veri conoscitori.

Washington non è né Roma né Firenze, ma di attrazioni ne offre davvero molte. Non credo che un museo postale sia in cima ai pensieri del “turista per caso” ma, nel giorno in cui l’ho visitato io, ossia un giorno qualunque della settimana, ci saranno state costantemente almeno 60 persone al suo interno. Inoltre, ci sono ogni ora tour guidati, gratuiti come il biglietto, da parte del personale.

Non sarà la visita al National Postal Museum a far nascere nuove leve di collezionisti, questo è chiaro, ma senz’altro aiuterà la comprensione di cos’è e cos’è stato il francobollo, raccontando che dietro ogni emissione si cela una storia e perché la filatelia è così affascinante, anche se oggi non si usano quasi più i francobolli.

Il museo mette a disposizione del pubblico meno dell’1 per cento del materiale di cui dispone, e solo poco più del 5 per cento dello stesso è disponibile online. Se però un collezionista, un perito,
un giornalista o chiunque altro voglia approfondire un argomento filatelico anche di nicchia, basta che scriva al curatore il quale, su appuntamento in biblioteca, tirerà fuori tutto il materiale
oggetto della ricerca!

Dietro questa macchina ci sono un’importante sovvenzione pubblica e una continua attività di raccolta fondi (negli Stati Uniti le donazioni sono parte integrante della cultura locale, anche per i grandi vantaggi fiscali che offrono): vi contribuiscono appassionati filatelisti e amici dello Smithsonian, ma anche turisti che, entusiasti della visita, decidono di supportarlo. Uno dei principali sponsor è lo US Postal Service, le Poste, che negli Stati Uniti continuano a fare solo il loro mestiere di “postini” (e infatti perdono ogni anno una valanga di denaro), reputando che l’oggetto che le ha fatte nascere – il francobollo – e che tuttora dà loro di che vivere, debba essere supportato.

Dopo la visita del National Postal Museum mi è venuto spontaneo fare un paragone con l’offerta italiana ed europea, e il confronto è desolante. È noto che i depositi dei musei italiani sono pieni di rarità e i reperti postali e della storia della comunicazione non fanno eccezione. Il Museo storico della comunicazione a Roma (di proprietà del Mimit e attualmente chiuso per lavori) sarebbe un buon punto di partenza, peccato che si possa visitare solo su prenotazione…

Però è proprio di pochi giorni fa la nomina di Silvia Rovere, giovane e brillante manager di fama internazionale, alla presidenza di Poste italiane. Dal momento che Poste, oltre a occuparsi del servizio postale, adesso (giustamente!) fa anche tante altre cose molto redditizie, magari il nuovo corso potrà, per puro fine filantropico, pensare di supportare la (ri)nascita di un piccolo museo della comunicazione in “stile Smithsonian”, celebrando ciò da cui la sua storia ha avuto inizio e da cui il suo business si è evoluto. Potrebbe essere un primo passo per far nascere nuovi
appassionati. Sono certo che altri parteciperebbero all’impresa, anche senza benefici fiscali.

La società Bolaffi ci starebbe.

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