Cornuti e...“daziati”?

Cornuti e…“daziati”?

Francobolli sotto dazio: un colpo illogico al mercato statunitense.

Di Filippo Bolaffi

Nel mondo della filatelia, ogni francobollo è un frammento di storia, che ha attraversato confini, epoche e generazioni. Ma dal 2 aprile scorso anche questi testimoni del passato sono diventati vittime collaterali delle nuove politiche commerciali protezionistiche trumpiane, che per ora faticano a distinguere tra beni culturali e merci ordinarie prodotte l’altro ieri. Nel contesto delle dispute commerciali tra Stati Uniti, Unione Europea, Cina e altri blocchi economici, di cui comprendo perfettamente la logica dell’attuale amministrazione statunitense, sia nella sua fase iniziale propagandistico-minatoria, sia nella sua futura – probabilmente più morbida – fase attuativa, incredibilmente rientrano anche i francobolli classici, oggetti da collezione spesso vecchi di oltre un secolo.

Se applicata con rigidità, la misura rischia di penalizzare un intero settore, oltre che apparire del tutto illogica. Ritengo che il mondo dei beni da collezione sia troppo piccolo rispetto a prodotti industriali o agricoli, per essere stato notato dal legislatore americano e quindi stralciato dal resto dei prodotti soggetti a dazi, per cui sarà finito semplicemente “nel mucchio” suo malgrado.

Il primo francobollo della storia, il Penny Black, è del 1840 e la produzione statunitense inizia solo sette anni dopo, nel 1847, ma il patrimonio filatelico americano ottocentesco rimane modesto nei numeri rispetto a quello europeo o coloniale. Paradossalmente, però, è proprio negli Stati Uniti che questi pezzi vengono più avidamente collezionati: il mercato statunitense è tra i più attivi e appassionati al mondo, con un pubblico di collezionisti esperti, aste di altissimo livello e un’infrastruttura commerciale consolidata.

Imporre dazi su francobolli classici importati significa quindi colpire non la concorrenza estera, ma in primis il collezionista e il commerciante americano. I francobolli da collezione non vengono più prodotti da decenni, spesso da oltre un secolo, e la loro presenza negli Stati Uniti non toglierebbe nulla alla produzione interna (inesistente, trattandosi di pezzi unici e storici), per cui il dazio, in questo contesto, se veramente confermato, assume i contorni di una tassa sull’eredità culturale globale. Le conseguenze sono in parte già visibili: operatori del settore segnalano una maggiore difficoltà nell’importazione di lotti significativi, con pratiche doganali rallentate e costi aumentati. Alcune case d’asta europee stanno riducendo le spedizioni verso gli Stati Uniti, mentre i collezionisti americani – tra i più attivi e danarosi al mondo – si trovano penalizzati. Tutto ciò in un mercato già reso fragile da dinamiche demografiche complesse e da crescenti incertezze fiscali.

Il rischio che l’Unione Europea per ripicca risponda con misure simmetriche, dazi sui francobolli americani, in questo caso tuttavia non creerebbe una spirale pericolosa: infatti, anche se questi oggetti (che dovrebbero viaggiare liberamente per essere conservati, studiati e apprezzati) venissero trattati alla stregua di “armi in un conflitto commerciale”, l’azione non avrebbe un impatto significativo, dal momento che la quantità di francobolli americani importati in Europa è molto modesta.

Comunque non ha senso applicare una logica protezionistica a beni usati e antichi, la cui natura è proprio quella di essere testimoni del tempo e non prodotti competitivi. Il francobollo, per sua natura, è legato alla storia di uno Stato, di un’epoca, di una cultura e tassarlo in quanto “merce” significa ignorarne il valore simbolico e culturale. La filatelia è, in fondo, anche un esercizio di memoria, cultura e scambio: scambio di oggetti, ma anche di storie, viaggi, guerre, iconografie, identità. Ridurre questo scambio a un’operazione doganale standardizzata, senza alcuna distinzione tra un foglio di nuove emissioni, che comunque non potrebbero aver alcun uso pratico postale negli Stati Uniti, e una rara emissione ottocentesca, significa perdere un’occasione di intelligenza normativa e sensibilità culturale. Il rischio è che, nel tentativo di difendere il presente economico, si finisca per impoverire il passato comune e la storia del mondo.

Però sono convinto che i beni da collezione antichi, e in primis i francobolli, siano finiti nel calderone senza che nessuno ne abbia calcolato il nullo impatto economico sul Pil americano, né abbia posto l’accento sull’illogicità di dazi su dei beni usati non sostitutivi di quelli nuovi “Made in Usa”. Sono dunque ottimista che prima o poi, magari anche grazie a una lobby americana del settore, si rimetta la cultura al suo posto, al riparo dai dazi, altrimenti il francobollo sarà cornuto (per questioni socio-demografiche) e pure mazziato (per via dei dazi).

I CONTENUTI DI GIUGNO – AGOSTO 2025

Commenti